mercoledì 20 aprile 2011

She's afraid of the light in the dark

Sfrutto la frase di una splendida canzone di Tori Amos per introdurre la seconda parte della discussione sui miei disturbi alimentari. Non essendo anoressica nel vero senso del termine, non mi permetto di dare consigli su come guarire da questa patologia, ma spero che condividere la mia esperienza aiuti qualche ragazza di passaggio a capire che il problema va affrontato. Una delle chiavi di ricerca grazie alle quali le persone finiscono sul mio blog è proprio anoressia, e il post più visitato in assoluto è quello su Isabelle Caro, quindi è evidente che l'argomento interessa.
"Aver paura della luce nel buio" è un ottimo punto di partenza per spiegare come ci si sente quando si affronta una sfida del genere; anche se dovrebbe essere una speranza, quella luce è un'incognita, la fine di un tunnel che a suo modo è rassicurante. Non vedere e non sentire è il primo passo per cadere nell'anoressia. Bisogna essere ciechi, veramente, per non accorgersi di come il proprio corpo si riduce, giorno dopo giorno. Quando mi sono rivolta al mio nutrizionista per la prima volta perdevo i capelli a ciocche, avevo la pelle secca, che spesso mi bruciava come se mi fossi scottata, le mie unghie avevano la stessa consistenza di fogli di carta, i miei ormoni erano completamente impazziti, avevo sbalzi d'umore degni di una schizofrenica, eppure mi sono rivolta a lui per dimagrire! O, meglio ancora, per mangiare di meno, dal momento che per me "dieta" significava fare a meno del cibo.
Fortunatamente ho incontrato una persona molto preparata e sensibile. Non so come abbia fatto, ma ha capito tutto appena mi ha vista. Mi ha fatto una serie di domande che mi sembravano del tutto inutili (ti piace cucinare? Bevi molta acqua? Secondo te, quanto è grande la tua gamba?), poi mi ha detto che, anche se non presentavo tutti i sintomi, il mio comportamento era da anoressica. Peggio ancora, non avendo una patologia ben definita, avrei potuto trasformarmi in bulimica. Come ho scritto nel messaggio precedente, non riuscivo a credergli. Mi ha convinta quando è riuscito ad "indovinare" certi miei comportamenti; evidentemente ero un caso da manuale. Molto onestamente, mi ha detto che non sapeva se il suo intervento sarebbe bastato o se sarebbe stato necessario ricorrere all'aiuto di uno psicologo; avendo avuto pessime esperienze con gli psicologi, ho deciso che mi sarebbe bastato lui e che, in alternativa, avrei accettato l'anoressia. Comunque lui non si è mai presentato come un guaritore con la soluzione ad ogni mio male, ma mi ha sempre detto che avremmo lavorato insieme, e che insieme avrammo affrontato i problemi.
In effetti, mi sembra davvero che ci sia stato uno scambio: io, come paziente, ho seguito le sue regole ed ho imparato come lavorare su me stessa senza alcun aiuto esterno; lui, come medico, ha potuto (e dovuto) imparare dalle mie reazioni, adattandosi a sbalzi d'umore, crisi isteriche, momenti di rabbia, depressioni più o meno passeggere... di sicuro sono stata un'ottima palestra.
In mesi di incontri non mi ha mai detto quanto avrebbe dovuto essere il mio peso forma. A parte il peso che leggevo dalla bilancia, non abbiamo mai parlato di grasso, di diete, di dimagrimento, di metabolismo. Mai. Non mi ha mai detto di mangiare una cosa piuttosto che un'altra, mai vietato dolci e grassi. L'unica condizione era riuscire a fare cinque pasti al giorno: un primo, un secondo ed un contorno a pranzo e a cena, due spuntini e la colazione. Per una che era abituata a farne solo uno, la cena, era una missione impossibile.
Non mi ha mai posto limiti di quantità. Volendo, avrei potuto fare una colazione all'americana, con bacon e uova fritte, e mangiare un cucchiaio di brodo per pranzo; l'importante era abituarmi a mangiare e non saltare i pasti. La cosa più facile di tutte è stata la colazione. Una tazza di latte, tre biscotti e via, già finita. La cosa più dura di tutte è stata la verdura. Anche se non avevo quantità minime da mangiare, perfino una forchettata mi sembrava troppo.
Continuavo ad odiare il cibo con tutta me stessa. Imparare a mangiare non mi sembrava affatto una cosa positiva, mi sembrava una sconfitta! Avevo sofferto per anni, costretta a mangiare roba che non volevo, prima di riuscire a liberarmi dal cibo, e stavo tornando indietro. Ero furiosa! Furiosa con me stessa, perchè non riuscivo a fare a meno di mangiare. Pur non provando un vero e proprio senso di fame, quindi non sentendo il bisogno di pranzare, il mio corpo mi stava chiaramente dimostrando che non poteva farne a meno. E, di conseguenza, io odiavo il mio corpo. Avevo la capacità di rimanere digiuna per giorni, con costanza e senza alcuno sforzo e il mio corpo mi tradiva così. Cedeva molto prima della mia mente. Ero costretta ad ammettere che avevo bisogno di imparare a nutrirmi correttamente, ma non volevo farlo.
Così, sempre nella speranza di riuscire a risparmiarmi lo psicologo, il nutrizionista mi ha chiesto di tenere un diario dei pasti, in cui scrivere le quantità di ogni cibo mangiato, il senso di fame o sazietà e il mio stato d'animo.
I primi giorni sono stati durissimi. Ero davvero tentata di vomitare tutto, sentivo il cibo riempirmi come un palloncino e mi sembrava di esplodere. Sul diario la parola ricorrente era "schifo":
- oggi ho mangiato la sogliola. Il pesce puzza, mi fa schifo;
- come verdura ho scelto la lattuga. Non sono una capra, tutto quel verde nel piatto mi fa sentire un ruminante. E poi è viscida! Che schifo;
- ho assaggiato degli animali nuovi. Calamari? Seppie? Polipi? Non lo so e non voglio saperlo. Sono tutti pieni di zampette, sembrano insetti. Mi fanno schifo;
- la frutta sembra fatta di capelli bagnati, è piena di fili di chissà che e perde liquidi, sporcandomi tutte le mani. Devo lavare via questo schifo.
Per una settimana, non ho fatto altro che scrivere cose del genere. Odiavo il cibo, odiavo il mio corpo, odiavo me stessa. Fortunatamente la situazione è cambiata in pochissimo tempo. Dopo aver sfogato tutta la mia rabbia durante i primi giorni, aver pianto, urlato, maledetto tutto e tutti e riempito quattro righe del diario con la scritta ODIO MANGIARE, mi sono calmata. Il tono dei miei scritti è cambiato e si è trasformato in una sorta di riflessione. Di tanto in tanto scrivevo cose che nemmeno sapevo di pensare. Solo dopo averle scritte mi rendevo conto di cosa significavano. Ho scoperto che mi infastidiva assaggiare piatti nuovi davanti agli altri, perchè avevo paura di essere derisa; ho capito che mi piaceva scoprire il sapore di cose "esotiche", spesso cucina cinese, ma non quello dei cibi conosciuti e usati abitualmente a casa mia.
Dopo le prime due settimane di diario, sono tornata dal nutrizionista, forte delle mie nuove scoperte. Ne abbiamo discusso insieme, abbiamo adattato la cura ai miei limiti e alle mie esigenze, e poi ho ricominciato. Di nuovo, non so come abbia fatto, ma ha individuato ancora una volta il problema e mi ha spinta a concentrarmi solo su quello: il rapporto tra me ed i miei genitori, relativamente al cibo. Bisogna tener conto del fatto che entrambi i miei genitori hanno problemi col cibo: mio padre non mangia pesce e alcuni tipi di carne, mia madre non mangia frutta e verdura, quindi la mia dieta non comprendeva nessuna di queste cose. Il loro comportamento influiva (e influisce ancora) molto negativamente sul mio senso di fame, un po' per come mi hanno trattata da bambina, associando sempre il cibo a sgridate, urla e a volte perfino botte, un po' perchè rifiutando il cibo rifiutavo loro. Ho dovuto quindi imparare a distinguere le due cose: il senso di fame o sazietà che era realmente presente e quello che era legato al mio stato d'animo. Vi è mai capitato di avere la "fame nervosa"? Il concetto è lo stesso. Ho chiuso la mia mente ad ogni emozione e ho affrontato il cibo per quello che era. All'inizio è stato difficile e ancora non posso dire di essermici abituata, ma ci sto lavorando.
Il passo successivo è stato imparare a comprendere il mio corpo. In quanto essere umano, non potevo certo pensare di non aver bisogno di cibo; se non riuscivo a sentire la fame, non voleva dire che il mio fisico non aveva bisogno di mangiare, ma solo che ero abituata al dolore.
Distinguere gli stimoli fisici dagli stati mentali non è semplice come sembra. Sempre tornando all'esempio della fame nervosa, molte persone provano in situazioni di stress un impulso irrefrenabile di masticare, pur non avendo fisiologicamente bisogno di assumere cibo. Si confonde il bisogno fisico con  quello psicologico e ci si lascia andare ad entrambi, non riuscendo a distinguerli.
Infine, una volta capito qual era il problema, dopo aver abituato (più o meno) il mio corpo a quantità di cibo sempre maggiori, ho dovuto scoprire il gusto delle cose. Non avevo mai guardato il cibo come una cosa piacevole, al massimo era commestibile. Per me non c'era differenza tra un risotto ai funghi e uno di quei piatti esotici pieni di vermi: entrambi erano gusti nuovi, incognite, problemi da affrontare. Non c'era niente che poteva sembrarmi più o meno appetibile, quindi ho dovuto scoprire tutti i gusti da zero, separando il cibo dallo stato d'animo che l'accompagnava, in una sorta di svezzamento. Ci sono quasi riuscita. Da quando ho conosciuto il mio nutrizionista, la mia dieta si è arricchita di: gamberi, tonno, dentice, orata, anguilla, capitone, platessa, tacchino, lattuga, indivia, bietole, zucca, cavolo, spinaci, carciofi, mozzarella, fiordilatte, yogurt, pere, ananas, kiwi, arance, limoni, cous cous, alcuni tipi di fagioli, zuppe varie. Tutte cose che non avevo mai mangiato (sì, non avevo mai assaggiato lo yogurt!). Posso finalmente dire, con cognizione di causa, che non mi piacciono le mele e il merluzzo. L'unico scoglio che non riesco a superare sono i latticini: quando ero piccola, per farmi assaggiare le sottilette mia madre ha minacciato di lasciarmi sola in ospedale il giorno prima dell'intervento di appendicite. Avevo più o meno 10 anni e già in passato le avevo chiaramente dimostrato che i latticini mi facevano schifo, ma mia madre sa essere infame quando vuole e quella sera le giravano male. E, come ricorda anche la bibbia, le colpe dei padri (e delle madri) ricadono sui figli.
Ovviamente i miei genitori non hanno creduto ad una sola parola di ciò che ho raccontato: per loro il nutrizionista è un incompetente, io sono una bambina capricciosa che vuole scaricare su di loro le proprie responsabilità, non ci sono disturbi alimentari in famiglia. E dire che mio fratello, sovrappeso, ha dovuto affrontare la stessa battaglia contro di loro per riuscire a non cadere nell'obesità. Invece, i miei genitori non solo hanno negato spudoratamente l'evidenza, ma mi hanno anche ostacolata: siccome molti alimenti non facevano parte della nostra dieta, spesso mi impedivano di comprarli e cucinarli. Oppure mi deridevano e tentavano di scoraggiarmi, non perdendo mai l'occasione di ricordarmi quanto tutto ciò che stavo facendo fosse inutile. Infine, per una sorta di perversa gelosia, più volte mia madre mi ha detto di sentirsi offesa dal fatto che seguissi i consigli di un estraneo, mentre avevo sempre rifiutato il cibo che mi dava lei. Io ho fatto la mia buona azione annuale e non le ho risposto.
Affrontando temi delicati come il rapporto con i miei, la paura dei gusti nuovi, l'incapacità di ascoltare il mio corpo e l'eccessiva emotività con cui vivo certe cose, avevo bisogno di una spalla su cui piangere. Anche su questo il mio nutrizionista è stato bravissimo: non è stato solo un medico, è diventato un po' psicologo, un amico, un confidente, un angelo custode. Eppure, è riuscito a non farsi coinvolgere, a non diventare uno scoglio a cui troppo spesso avevo la tentazione di aggrapparmi. Nei momenti difficili mi ha sempre fatto sentire il suo appoggio, ma se capiva che mi stavo lasciando andare, mi dava un metaforico calcio nel posteriore per "aiutarmi" a rialzarmi e ricordarmi che dovevo camminare con le mie gambe. Tutto dipendeva da me, sempre e comunque. Mi ha dato gli strumenti per poter reagire, nel caso dovessi caderci di nuovo, senza l'aiuto di nessuno. E questo è stato il suo regalo più grande.
Certo, ci sarebbe ancora tantissimo da dire. Per ognuno le motivazioni sono diverse, ma i disturbi alimentari non sono mai un capriccio. Nascono sempre dalla sofferenza, che ne siamo coscienti o meno. Il passo più difficile è proprio individuare il problema. Limitarsi a mangiare di più o di meno può risolvere momentaneamente un problema di peso, ma non guarisce le ferite profonde che portano a desiderare perfino la morte attraverso il cibo.
Alla base c'è sempre un disperato bisogno d'amore.

4 commenti:

  1. E' vero tutto ciò che scrivi. "Alla base c'è sempre un disperato bisogno d'amore". E soprattutto tutto ciò non guarisce le ferite.. no, quello proprio no. Penso di avere anche io dei "disturbi" del genere, non come i tuoi, direi all'opposto in un certo verso... mh, no, pensandoci direi che è un problema in entrambi i versi. Come sai ho molti problemi che riguardano la tiroide che comunque continuo a curare. Ma ricordo che tra la II e la III media il mio unico pensiero era: Se mangio fino a scoppiare sicuramente morirò nel sonno. E così facevo, non avevo minimamente fame ma mangiavo tutte le schifezze che mi capitavano a tiro, così erano più le sere che passavo a vomitare piuttosto che a dormire. Certe volte ho una fame nervosa che parte dal mio costante vizio di mangiarmi le unghie e si espande verso il cibo... non sento i sapori, non sento niente, molte volte neanche mi piacciono le cose, penso di farlo senza un minimo di coscienza. Poi ci sono tante altre volte che riesco a non mangiare giornate intere, quando ero in Accademia ad esempio, consapevolissima che dovevo lavorare fino alle 8 di sera, riuscivo a non mangiare dall'ora di colazione fino all'ora di cena, cena che si risolveva praticamente con una tazza di latte e via... Lo so, è tutto sbagliato, e a volte mi sento un rudere che dev'essere abbattuto e ricostruito da capo. Vedo delle foto di ragazze reali (non di modelle) oppure vedo ragazze tra quelle che conosco e vedo nella mia città e mi dispero che non sarò mai come loro... Mi verrebbe voglia di tagliare pezzi di me e buttarli via... uff! Comunque sono contentissima davvero per te che sei riuscita in qualche modo a trovare una strada e qualcuno che davvero ti aiuti e ti dia tutto il supporto necessario per cominciare a stare finalmente bene. Continua così e per quanto poco possa fare io, sappi che puoi contare sempre su di me ^_^

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  2. Spesso i genitori non si rendono conto del male che fanno ai propri figli, a volte perché convinti di agire nel migliore dei modi; altre volte perché, troppo presi dai loro impegni e dai loro problemi, non hanno il tempo per soffermarsi a riflettere sulle proprie azioni. E' naturale che si commettano degli errori, aiutare i propri figli a crescere, sia fisicamente che mentalmente, non è un compito semplice, anzi. Il vero problema è un altro: molti genitori, nonostante si rendano conto degli errori commessi, anziché cercare di rimediare si accaniscono contro i figli, perché li vedono come il simbolo del proprio fallimento, della propria incapacità. Il tuo caso è emblematico: i tuoi genitori, davanti all'operato di un medico che, in un lasso di tempo relativamente breve, è riuscito ad ottenere con te più risultati di quanti non siano mai riusciti loro in tutta la tua vita, si sono sentiti punti sul vivo; e il medico è diventato incompetente, tu capricciosa, la tua "dieta" ridicola e risibile... Anche io avrei qualche difficoltà ad accettare che un estraneo, anche se medico, possa ottenere dei successi laddove io ho fallito miseramente: ma ci sono delle priorità, e credo che la salute di chi ci sta a cuore debba venire prima di tutto. Ovviamente ciò vale in entrambi i sensi: anche i figli dovrebbero fare la loro parte...

    Cara Lil, non arrenderti mai: per quanto la strada ti sembri lunga e difficile, ripensa sempre a quanto sei riuscita ad ottenere con le tue forze, nonostante il comportamento avverso di chi dovrebbe, invece, sostenerti; e siine fiera.
    Antonio (troppo pigro per registrarsi...)

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  3. beh, dai, stavolta non ero completamente nuova a quello che hai scritto! Forse anche io ho bisogno del tuo nutrizionista...ricordo ancora quando sono andata dalla naturopata ed ero quasi in lacrime perchè gli alimenti che mi aveva consigliato di togliere erano proprio i miei preferiti e per questo stavo iniziando ad abbuffarmi senza ritegno (tutto ciò davanti ad una paziente). Tesoro la tua frase ha colto a pieno il disagio di un disturbo alimentare. Ti abbraccio forte, mi manchi già. Rossana

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  4. Ho riletto il commento che ho lasciato oggi e... non mi piace! Oddio, sembra una delle tesine che scrivo per i prof dell'università, sei libera di prendermi a calci la prossima volta che mi vedi (che poi sarà domani...).
    La storia del nutrizionista la conosco bene: un po' perchè è lo stesso da cui andavo io (per il problema opposto, a me piace troppo mangiare!), un po' perchè ti ho accompagnata a tutte le visite! Lui è stato bravo, ma tu lo sei stata molto di più: ricordo quanto ti sei sforzata per assaggiare un po' tutti i cibi, le serate passate davanti ad un piatto di orata o di cavolo, la delusione perchè non riuscivi a mandare giù nemmeno un boccone, ma anche la soddisfazione (e il sollievo) di aver finalmente finito tutto. E poi scommetto che presto riuscirai a vincere anche la repulsione per i latticini: non sei tu quella che va matta per la mozzarella, ora? Sì, proprio tu che fino all'anno scorso diventavi verde solo al sentirla nominare!
    La strada da fare è lunga, ma io sono pronto a percorrerla insieme a te, se lo vorrai... A presto, buonanotte, smack!
    Antonio (finalmente loggato...)

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